Il mondo ex-libero della rete è sempre più filtrato dall’azione di pochi operatori che, per farci un favore, personalizzano ogni risposta alle ricerche in base alla percezione che si sono fatti dei nostri bisogni e necessità. Non importa quanto corretta o sbagliata essa possa essere

In ottobre dovevo partire per un lungo viaggio per il quale avevo bisogno di una copertura assicurativa. La semplice visita del sito della Mondial Assistance, ha segnalato il mio bisogno ai filtri della rete e da quel momento, in molte pagine da me visitate, sono stato inseguito dal banner di Google Adsense della società assicurativa.

Visitando la libreria Amazon per l’acquisto di un libro di Lansdale al mio profilo vengono associati i libri di Winslow, Crumley, Leonard ma anche quelli di autori selezionati da profili personali di utenti che vengono ritenuti simili al mio. Se poi acquisto il libro in formato e-book per il mio Kindle Fire è probabile che i dati relativi al modo con cui sfoglio, leggo, annoto il mio testo vengano registrati per costruire un mio profilo virtuale di lettore.

Due semplici esempi di quanto sta succedendo online nell’era della personalizzazione delle ricerche. Nel mondo digitale, nel quale passiamo molto del nostro tempo, ciò che fino a ieri era un mezzo anonimo nel quale tutti potevamo agire indisturbati con personalità multiple, è diventato uno strumento potente nelle mani di pochi, per raccogliere e analizzare dati personali. Google, Facebook, Amazon, Linkedin offrono un servizio che paghiamo in gran parte con le informazioni che forniamo su di noi e che vengono poi cedute e trasformate in denaro sul ‘mercato dei comportamenti’ e del marketing. Un mercato sempre più ricco e promettente, poco rispettoso del ‘permission marketing’ e che fa di ogni click in rete una merce da vendere al miglior offerente.

Il web che frequentiamo è sempre più personalizzato e le informazioni che cerchiamo con Google sono filtrate dal profilo che il motore di ricerca ha costruito su di noi. Le informazioni sono estrapolate dopo aver stabilito quali sono le cose che ci piacciono e quali possano essere i nostri comportamenti futuri. Per capire quanto ciò sia vero è sufficiente fare una ricerca con Google su un tema che ci interessa usando il nostro personal computer o tablet e poi ripeterla usando quello di un amico. La differenza è straordinaria, in numero di link ma soprattutto di contenuti personalizzati.

Il problema è che non possiamo evitarlo, il servizio che ci viene offerto in qualche modo ci piace perché disegna intorno a noi un mondo su misura nel quale sembrano trovare soddisfazione tutti i nostri bisogni, gusti, stili di vita. Ma nel momento in cui permettiamo alla tecnologia di agire da intermediario tra noi e il mondo, dobbiamo sapere che essa non è mai neutrale. La tecnologia può distorcere in vari modi la nostra percezione del mondo e le conseguenze che finiamo per pagare sono numerose. Un mondo costruitoci addosso su misura ci impedisce di scoprire e imparare cose nuove, limita e condiziona le nostre scelte e delega ad entità esterne la ricerca di possibili alternative. Per dirla con l’autore del libro ‘The Filter’, Eli Pariser, “avevamo pensato che Internet ci avrebbe portati alla civiltà della mente e rischiamo invece di farci una lobotomia globale”.

All’inizio era Amazon
La responsabilità della personalizzazione spinta attuale va fatta risalire a Bezos e all’idea che alla base del suo progetto ci dovesse essere della intelligenza artificiale per trovare la corrispondenza tra clienti e libri e di favorire il processo di scoperta. Poi è arrivato Google con il PageRank ma soprattutto con Gmail e Google Apps che sono serviti a mettere a punto gli algoritmi per la personalizzazione. Infine Facebook ha reso sociale la rete in modo da permettere alle persone di condividere i loro interessi e gusti attraverso la loro rete sociale di amici e conoscenti. Tutte e tre le società si contendono oggi un mercato ricchissimo, fatto di informazioni che le grandi marche si contendono per vendere di più e meglio i loro prodotti. Anche l’informazione, già oggi è in gran parte prodotta, selezionata e distribuita da macchine più che da persone come ben illustrato da strumenti editoriali automatizzati come Paper.li e Scoop.it.

Internet indiretta
Ci avevano raccontato che Internet era bella perché disintermediava creando opportunità per tutti, oggi scopriamo che tutto ciò è un mito e che nuovi intermediari hanno semplicemente sostituito i vecchi diventando per di più invisibili. Capita così che contenuti di bassa qualità trovino la via per una popolarità diffusa e immeritata e che altri di qualità maggiore siano destinati all’anonimato e ad essere snobbati dalle masse. Tra questi ultimi finiranno molte notizie scomode, complicate, approfondite, alternative e impegnate. Il tutto con la nostra complicità, perché consumare informazioni conformi alla nostra idea del mondo è piacevole, consumare informazioni che ci stimolano a pensare diversamente è più difficile perché ci obbliga a metterci in discussione. Un orizzonte limitato finisce così con intralciare la nostra volontà di cambiamento e di ricerca di innovazione. Così Internet da strumento potente e democratico si sta trasformando in un grande database delle intenzioni. Un ambiente nel quale diventerà sempre più facile trovare quello che sappiamo già e sempre più difficile avere visione della realtà delle cose e della pluralità delle conoscenze.

In questo modo il Web e il suo massimo rappresentante, Google, perde la sua serendipità (si cerca una cosa e se ne trova un’altra), una delle sue qualità migliori che favorivano evoluzione e innovazione.

Opporsi a questa evoluzione non è obbligatorio ma non è neppure impossibile. Internet è uno strumento duttile la cui forza reale sta nella sua capacità di modificarsi. Si può ancora cambiare strada e lo si può fare seguendo il consiglio del creatore del web Tim Berners-Lee: “Siamo noi a creare il web. Siamo noi a scegliere quali proprietà vogliamo che abbia o non abbia. Prima però dobbiamo avere una visione e capire qual è il nostro obiettivo”.