Questo è il primo di due articoli dedicati a un tema molto di moda in epoca di spending review: l’esternalizzazione, e non solo di servizi. Spesso cedere a questa necessità significa perdere qualità e flessibilità

Parliamo di outsourcing, quello vero: sgombriamo quindi il campo da ogni confusione su aspetti tipo servizi di terziarizzazione della sola infrastruttura informatica.

Non sono mai stato un sostenitore dell’outsourcing, anzi l’esatto opposto e i fatti mi hanno sempre dato ragione. Da tanti anni, almeno dall’inizio del nuovo millennio, ho sempre incontrato sul tema specifico uno stuolo di casi di forte insoddisfazione e problemi ma devo ammettere che la mia attuale esperienza statunitense mi ha oltremodo illuminato sui devastanti effetti derivanti dalla scelta di un outsourcing troppo spinto.

Vorrei quindi affrontare la problematica identificandone in primo luogo i problemi più evidenti e in seconda battuta, con una continuazione di questo articolo, alcuni possibili rimedi.

Ci sono due principali ordini di problemi, entrambi di importanza rilevante: uno di competenza e flessibilità e l’altro più squisitamente sociale.

Partiamo dal primo e dalle ricadute di questo sulle imprese.

Affidare in toto a un soggetto terzo intere aree e processi aziendali significa demandare totalmente la competenza in quell’area: troppo spesso demandare si traduce in perdere.

Il gioco dell’outsourcing è infatti logorante in quanto la materia oggetto del trasferimento è sottoposta a due forme di attrito devastante. Da un lato abbiamo contratti capestro redatti da Uffici Acquisti la cui lungimiranza è pari a quella di un cieco messo in un tunnel. Gli stessi insistono poi sull’unico punto caro a chi si occupa di acquisti, ovvero spuntare il prezzo più basso. Di rimando chi fornisce i servizi cerca di tutelarsi con altrettante clausole capestro e come risposta all’offerta di tariffe miserevoli pianifica di infarcire la sua proposta di risorse al costo più basso possibile. Cosa manca totalmente in questo gioco al massacro?

Due aspetti di importanza non marginale: la qualità e la flessibilità ! Scusate se è poco…

Sono totalmente assenti: ma perché cercarle? L’acquisitore sosterrà che sono comprese nel servizio da erogarsi: il service provider sosterrà altrettanto per quanto concerne il perimetro di attività previsto.

Ecco l’inghippo: il perimetro previsto.

Qui casca l’asino: infatti una volta attivata la fase di outsourcing questo non comporta che il business di quell’azienda si fermi. Può capitare (pensate…talvolta capita ancora…) che l’azienda cresca e si trovi ad affrontare nuove sfide, nuove opportunità.

Magari si tratta di un’acquisizione e a quel punto diventa importante rendere omogenei processi e sistemi di supporto nella nuova compagine allargata.

Magari…ma…ohps…tutta una serie di processi sono stati affidati all’outsourcer e all’interno dell’azienda nessuno se ne occupa più. Sarà in grado il soggetto terzo di dare supporto e rispondere alle nuove esigenze?

Di certo ne scaturirà un conflitto di tipo economico perché il famoso perimetro non prevedeva tale variazione. Ammettiamo pure si trovi la quadra per avere tale tipo di supporto: quali saranno però le competenze effettive che la terza parte sarà in grado di erogare?

D’un tratto ci si accorgerà che le competenze una volta patrimonio dell’azienda non ci sono più.

Certo perché, come sempre accade in questi meccanismi, i gruppi di risorse inizialmente  “conferiti” dall’azienda all’outsourcer vengono dallo stesso sostituiti in un lasso di tempo abbastanza breve con risorse a costi più bassi.

Il risultato è la totale dispersione del knowhow aziendale sugli specifici processi, rimpiazzata da una capacità di gestione limitata solo e soltanto al famoso perimetro definito. La valutazione di qualsiasi nuova esigenza esterna a tali contorni è condizionata all’effettiva capacità dei soggetti coinvolti e questo può essere veramente critico.

Il rischio quindi è di trovarsi “blind in the dark”, espressione capace di rendere molto bene l’assenza di competenza e la difficoltà nel trovare risposte a nuove potenziali esigenze.

E questo è solo l’aspetto interno all’azienda: esiste poi un altro problema di tipo sociale e personalmente sono rimasto stupito da quanto questo sia di dirompente evidenza in certe zone degli Stati Uniti.

Come prima indicato, quanto di solito avviene nelle fasi successive all’avvio di un outsourcing è lo smembramento dei gruppi di risorse conferite dall’azienda al Service Provider.

In un mercato come gli USA dove il lavoro non è minimamente tutelato tali fenomeni hanno dinamiche rapide e ciniche. Si licenziano gli ex dipendenti di quell’azienda e li si sostituiscono con torme di indiani o altre risorse a basso costo.

Attenzione: se il mercato statunitense consente questo non è che lo stesso fenomeno, con dinamiche più sottili e lente, non avvenga anche nelle casistiche europee o nostrane.

Certo da noi non si può intervenire col licenziamento ma chi opera in tale settore conosce tecniche sottili e spietate che portano sempre alla sostituzione delle risorse acquisite con altre più confacenti ai vincoli economici imposti dal contratto.

La conseguenza, e posso testimoniare quanto questo sia evidente negli USA, è quella di ritrovarsi con “white collars”  licenziati e catapultati in una realtà di difficile ricollocabilità.

Si può anche essere un WASP (white anglo-saxon protestant) ma ritrovarsi a cinquant’anni senza lavoro negli USA non è certo cosa facile: tantomeno lo è da noi…

Le conseguenze immediate sono due: da un lato la proliferazione degli indiani (ma non dei pellerossa) che hanno inondato gli States negli ultimi dieci anni e dall’altra l’emarginazione di intere classi impiegatizie.

Visitate qualsiasi grande centro commerciale americano e vi accorgerete di quante famiglie indiane vi troverete. Uscendo poi dallo stesso centro commerciale fermatevi alla stazione di servizio: magari vi troverete dei cinquantenni WASP che sbarcano il lunario facendo benzina o lavando le macchine.

E qualcuno vi racconta ancora come l’outsourcing sia un aspetto da considerare con interesse?

Certo…come dire che Freddy Kruger è il principe azzurro delle fiabe!

Come cercare di venire fuori da questo pantano lo vedremo nel prossimo articolo…

 

 

Enrico Negroni, autore di questo articolo, è stato responsabile europeo di SAP e ha lavorato nel management di multinazionali del calibro di HP ed IBM. Ora mette nei suoi testi l’intima esperienza nelle logiche operative dei colossi dell’It mondiale. È l’autore del libro “La scrivania obliqua” e del nuovo romanzo “Prossima curva l’Oceano”, Piero Macchione Editore