Infrastruttura di rete e alfabetizzazione informatica sono prerequisiti, condizioni abilitanti per far girare meglio il motore della Pubblica amministrazione, un settore in cui l’offerta di servizi digitali rappresenta una leva di crescita molto importante. Essenziale, spiega l’onorevole Linda Lanzillotta, attualmente deputato del Gruppo Misto, è però che la politica di rinnovamento della PA s’inserisca in una strategia complessiva, guidata da una visione, che il governo deve avere a livello nazionale. A ciò dovrà aggiungersi la creazione di condizioni abilitanti perché tutte le tessere del mosaico della PA possano realmente produrre un risultato. Altrimenti, il rischio sarà quello di una grande dispersione di risorse. Ma l’Italia ce la può fare? Lanzillotta risponde sì, a condizione che la classe dirigente si metta al servizio di un progetto comune, e che ognuno eviti meschini individualismi, a tutti i livelli. Questa, dice, è un po’ la malattia del nostro Paese, da cui l’Italia deve guarire. Altro aspetto critico è il ringiovanimento della classe dirigente italiana, perché l’economia digitale è tipicamente una visione connessa alle nuove generazioni, nate e cresciute in questo mondo tecnologico, molto meno visto come obiettivo ineludibile da chi è più anziano. E questo è un altro fattore frenante verso l’attuazione dell’Agenda digitale.
Onorevole Lanzillotta, a che punto si trova l’Italia in tema d’innovazione della Pubblica amministrazione?
Siamo un po’ a metà del guado. Nel senso che tutti gli indicatori europei ci danno nella parte bassa della classifica, e anche se c’è una diffusione di tecnologia nelle amministrazioni, quando poi andiamo a vedere l’uso che di tutti i servizi online viene fatto dai cittadini, questo è ancora molto basso. Quindi occorre agire su molte leve. Perché il trasferimento sulla rete di tutta l’attività della Pubblica amministrazione è il frutto di molti processi che devono convergere: uno è sicuramente il modo di operare della PA, ma l’altro è la diffusione di una rete efficiente. L’altro ancora è la stabilizzazione informatica, e quindi l’incentivo a che la stabilizzazione informatica si diffonda.
Questo ad ogni livello, enti, cittadini …
Certo, sia a livello di famiglie sia di imprese, perché la struttura delle nostre aziende, ossia la polverizzazione in piccole realtà imprenditoriali, fa ritardare l’innovazione diffusa. Questo lo sappiamo. Quindi occorrono politiche convergenti, e l’Agenda digitale è proprio questo: un menu molto vasto di azioni che devono complessivamente portare a un’espansione dell’economia digitale, come fattore di crescita, di sviluppo, ma anche di qualità della vita. Perché tutto quello che attiene, ad esempio, all’infomobilità, alla riduzione degli spostamenti, dei tempi, all’espansione del mercato che la rete consente, aumenta anche la qualità della vita oltre che le opportunità di sviluppo.
L’Italia si trova in ritardo sull’Agenda Digitale, qual è il punto più critico?
È in ritardo, perché è arretrata nello sviluppo della rete. A tal proposito, è molto positivo quello che si è messo in moto con investimenti pubblici, o di società pubbliche, perché noi siamo stati troppo a lungo condizionati dai problemi di un’azienda, pure importante a livello nazionale, come Telecom Italia. Sicuramente le vicende di Telecom, e quindi il fatto che sia un’azienda gravata da un enorme debito, hanno frenato gli investimenti. E questo, non c’è dubbio, ha condizionato lo sviluppo della rete. Che ora il governo abbia messo l’acceleratore su questa leva è molto importante, qualsiasi cosa si faccia: ad esempio parliamo tanto di cloud computing, ma finché non esiste una rete adeguata, anche il cloud non può operare. Questa è dunque una condizione di sistema che va assolutamente attivata.
Allude a una rete di nuova generazione?
Mi riferisco alla Ngn, certo. Perché dobbiamo guardare al futuro, e agli obiettivi dell’Agenda di Lisbona …no. Ho avuto un lapsus, naturalmente intendevo l’Agenda digitale. In effetti, sulla Strategia di Lisbona abbiamo fatto molti convegni, ma quegli obiettivi sono rimasti sulla carta. E questo è infatti uno dei problemi della nostra scarsa competitività, rispetto ad altri sistemi, come quello tedesco o francese: tutto quello che era lo sviluppo dell’education, della ricerca, dell’information technology, è rimasto indietro. Vediamo proprio di recente, dal rapporto Giarda sull’evoluzione della spesa pubblica come, anche rispetto agli altri paesi europei, la spesa in rapporto al Pil sia aumentata verticalmente nel settore della Sanità, e sia invece calata nel settore strategico dello sviluppo, che è quello dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione. Queste sono scelte politiche che poi si pagano.
Crede che tagliare gli enti che gestiscono la ‘digitalizzazione’ della PA, per ottenere risparmi, sia una strategia corretta?
Non credo che il problema sia solo o tanto di ridurre la spesa. Certo questo è un obiettivo importante: ma è la governance di tutto il sistema d’innovazione digitale che dev’essere semplificata per diventare più efficiente. Oggi come oggi noi abbiamo, a mio avviso, un problema di governance, di coordinamento a livello di Governo. Credo che il punto di coordinamento dovrebbe essere in capo al presidente del Consiglio, perché ci sono ministeri molto forti che operano congiuntamente, che vanno coordinati secondo una strategia comune e priorità che non possono essere rimesse, diciamo così, alla negoziazione interministeriale, ma devono avere un punto di sintesi. Esiste una pluralità di enti che sovrappongono la loro azione in modo inefficiente e talvolta inconcludente. Quindi penso che, da un parte, ci voglia un ente operativo, che può essere DigitPA, opportunamente rivisto, potenziato e riqualificato e, dall’altra, un soggetto che definisca le linee d’azione, i progetti, la strategia, eliminando tutta quella congerie di enti che invece spesso si ostacolano in maniera reciproca, creando attività nello stesso ambito.
L’altro punto è un forte governo al centro di tutto il sistema ‘federalista’: abbiamo un complesso di regioni, province, enti locali, che ha sviluppato sistemi informativi non interoperabili, non funzionanti su basi condivise. La Commissione affari costituzionali, su mia iniziativa, nel corso di questa legislatura, ha fatto un’indagine conoscitiva che dà un quadro incredibile della frammentazione. Quindi il federalismo e la sua ‘inefficienza’ ha un risvolto anche su tutto quello che è l’innovazione tecnologica. Lì occorre governare il sistema, in modo che ci siano interoperabilità e modelli, che poi vengono replicati senza uno spreco di risorse, che oggi è invece altissimo.
Parliamo del cosiddetto ‘G-cloud’. Il cloud computing potrà davvero trasformare la PA? Quali problemi vede oltre alla necessità della banda larga?
La banda larga è una pre-condizione. Poi occorrono regole molto precise che garantiscano la sicurezza della proprietà dei dati, e la sicurezza dell’efficienza di accessibilità. Definite queste regole, ritengo che la cloud possa essere una grandissima opportunità per migliorare l’operatività della Pubblica amministrazione: in termini di riduzione dei costi, attraverso un vero e proprio piano industriale, che preveda una riconversione delle modalità classiche di stoccaggio e utilizzo dei dati nella modalità del cloud computing, che significa riduzione di tutti gli spazi, riorganizzazione della logistica, riduzione degli addetti che oggi operano in questi settori. Riassumendo, attraverso la cloud si può realizzare una grande operazione di ristrutturazione della PA, che però richiede una regolazione, banda e un progetto ben definito.
Un requisito chiave dovrebbe essere anche la definizione di un ente revisore, preposto al controllo della qualità dei servizi cloud per la PA. In Italia chi dovrebbe occuparsene?
Sì certo, accanto alla definizione delle regole, è necessario anche avere un soggetto, come può essere appunto uno degli enti che si occupano dell’infrastruttura digitale della PA, addetto anche alla verifica della cloud. Oggi come oggi, DigitPA, naturalmente rinnovato e riqualificato nella sua struttura di vertice, organizzativa e operativa, dovrebbe appunto concentrare queste funzioni sulle infrastrutture e sui servizi.
Le ‘smart city’ del futuro, per essere realizzate, richiedono notevoli investimenti: l’Italia su quali fondi europei si può contare e fin dove possono arrivare?
Ci sono molti fondi europei, e sono quelli che il governo ha già mobilizzato. Sono i fondi strutturali (i fondi dell’Unione europea definiti nei piani Obiettivo 1, 2 e 3, ndr.) destinati alle aree del Sud e ad alcune zone del Paese, che possono gemellarsi con altre per fare progetti co-finanziati con fondi europei e con altri fondi: qui ci sono già i bandi avviati dal governo. In tutte le altre aree, occorre investire in fondi pubblici, ma anche privati, perché è possibile un ritorno dell’investimento, utilizzando tutte le leve della finanza, come ad esempio i Project bond.
In questo complesso scenario qual è il ruolo di Glocus?
Glocus è un think thank indipendente che si occupa da molti anni d’innovazione digitale, elaborando progetti e mettendo in comunicazione il mondo delle imprese, della ricerca, con quello delle politiche pubbliche – quindi amministratori e istituzioni – per concorrere all’avanzamento dell’economia digitale. È un laboratorio: la nostra missione è spingere verso una crescita dell’economia digitale, coinvolgendo tutti gli stakeholder che possono partecipare a questo avanzamento.